24 luglio 2007

Giovani e politica

di Emanuele Di Mascolo

Quando questo articolo verrà letto, Gaeta avrà con ogni probabilità eletto il suo Sindaco ed annessa giunta. Il Sindaco che verrà si troverà a dover gestire una situazione non certo facile, un’eredità pesante. Gaeta attraversa uno dei suoi periodi peggiori, è ferma, o meglio si muove solo per qualcuno, che poi sono sempre quelli che hanno “le mani sulla città” da sempre , le stesse facce, lì pronti a difendere i propri interessi e quelli degli “altri”, gli amici degli amici. Ma scopo di chi scrive, è però un altro; non solo quello di denuncia della politica e dei “politici” a Gaeta, ma bensì anche, la volontà di porre all’attenzione della comunità, un aspetto importantissimo dello scenario politico nostrano, una questione mai risolta e posta correttamente: la questione giovanile. È inutile sottolineare come, aldilà delle dichiarazioni di facciata, su presunte necessità di giovani in politica, esista un meccanismo che di fatto, opera un allontanamento di questi dalla politica. Questo meccanismo tende essenzialmente alla rappresentazione della politica come qualcosa di tecnico, specialistico, roba da addetti ai lavori. E gli addetti ai lavori si guardano bene che le cose rimangano immutate. Sono come una casta che si erige sulle spalle della gente e parassita, creando relazioni di potere e dipendenza. “Se mi voti metto a lavorare tuo figlio”, “hai bisogno della spiaggia o devi costruire qualcosa, portami voti e vediamo quello che si può fare”. Questi sono ricatti, ancor più squallidi quando giocano sulle necessità dei poveracci, che si vendono per un piatto di maccheroni, o come si dice da noi “pe le ranelle”. I custodi dell’accesso alle risorse come il lavoro, la salute, la casa, la cultura, trasformano dei diritti di ciascuno in merce di scambio e baratto per la loro candidatura. Chi fa politica in questa maniera è un delinquente.

Nello scenario politico nostrano i giovani sono considerati alla stregua di minoranze, come le donne del resto. Malgrado gli sforzi stimabili di qualche lista nel promuovere l’accesso delle giovani generazioni nelle istituzioni cittadine, lo scenario rimane pressoché deprimente. Esiste un fronte conservatore nei partiti e nei movimenti, siano di destra o di sinistra, che di fatto preclude e si chiude ad un ricambio generazionale, e ciò gli è possibile grazie a quel meccanismo che rappresenta la politica come qualcosa di meramente tecnico, specialistico. Man mano siamo stati relegati ai margini, siamo confluiti nel privato, diventando passivi, indifferenti ed ahimé innocui. All’idea di uno spazio pubblico che ci riguarda, e dunque anche da noi dovrebbe essere gestito, abbiamo sostituito il nulla. Basta guardarci per capire a cosa ci siamo ridotti. Alcuni di noi si sono immolati a difensori della “razza pura gaetana”, disdegnando napoletani e formiani e tutto ciò che non ha odore di tiella d’ purp’, scadendo nel più oscuro provincialismo che farebbe persino paura ai nostri nonni. Altri considerandoci “razza caina” non vedono l’ora di andare via da questo pantano, una nuova generazione di migranti viene allevata a Gaeta in attesa che arrivino i tonni. Siamo divisi in comitive, ognuna ha il suo muretto da scaldare, siamo come tribù che non si parlano che non comunicano. Eppure basterebbe soffermarsi un attimo in più, per scorgere tutta la nostra forza, che è li sotto i nostri occhi: siamo tanti. Tanti figli di una madre che qualcuno prontamente umilia, signorotti accattoni, sovrani della sabbia. Oggi è tempo di cominciare a voltare pagina, il vento deve cominciare a spirare dalla nostra parte. Costituiamo associazioni culturali, politiche, cooperative di lavoro, gruppi di discussione; organizziamo campagne di sensibilizzazione, eventi, feste e tutto ciò che possa permetterci di esprimere ciò che abbiamo da dire. Ognuno lo farà a suo modo, con i propri mezzi e le proprie idee; il motto deve essere “colpire uniti marciare separati”. È una lotta per la nostra autonomia, in quanto categoria sociale e politica, per la nostra indipendenza culturale.

La questione della rappresentatività è di vitale importanza, abbiamo bisogno di facce e nomi che ci tutelino, che portino le nostre istanze quanto più in alto possibile, e cosa più importante si battano per realizzarle. Ai signori che ci chiedono di “onorarli”di far parte delle loro liste, dobbiamo rispondere che non portiamo solo probabili voti, ma lotta, voglia di cambiare, di chiuderla con una certa maniera di far politica. Solo in questa maniera svolgeremo un servizio leale alla nostra causa di indipendenza, altrimenti non saremo altro che burattini elettorali, sedotti ed abbandonati. Il fine a cui tendere è un forum giovanile con poteri consultivi, una casa di tutti i giovani di Gaeta. Ma è ovvio che questo è un traguardo oggi lontano;la strada è disseminata di tappe intermedie, e la prima è quella di creare organizzazioni giovanili dal basso che dove possibile collaborino e si prestino mutuo soccorso reciproco. So già che questo articolo a qualcuno non piacerà perché percepito come troppo “militante”, ma dato che da un militante è scritto, non poteva che essere altrimenti. Auguro a tutti quelli che percorreranno la strada della lotta per la nostra indipendenza ed autonomia buona fortuna; ricordandogli che questo, è solo l’inizio.

02 luglio 2007

Universi comunicativi

di Paolo Coiro

Domenica sera. Il posticipo è Ascoli-Messina; così decido di andare al cinema con la mia ragazza. Sono fortunato, perché a Gaeta danno “Nuovo mondo” di Crialese, un film che desideravo vedere. Decidiamo di andare allo spettacolo delle 20:00. Entriamo. Silenzio totale. “Due biglietti per piacere”, chiedo quasi sottovoce per non svegliare qualcuno che sta dormendo nascosto da qualche parte. Saliamo le scale per raggiungere la galleria, apriamo la porta ed entriamo in un cinema vuoto. “Va be’, ci sarà qualcuno in platea…” penso tra me e me. Mi sporgo dalla ringhiera; niente. Nessuno. Inizio a fare i pensieri più strampalati: “Vuoi vedere che ho sbagliato a consultare sul televideo e il posticipo era Milan-Inter?”, “Domani mattina finisce il mondo e nessuno ha pensato di passare l’ultima sera della sua vita al cinema”, “Oggi è lo sciopero dei cinofili, manifestano per seggiolini più comodi…”. Il vortice di pensieri assurdi, si placa e cerco di vedere il bicchiere mezzo pieno: “Ho una salatutta per me, senza nessuno scocciatore che inizia a parlare durante la proiezione o mangiare i Cipster”. Allora, mi accomodo nella mia poltroncina, lancio un sorrisetto alla mia girl e sono pronto per vedere il film. Mentre va in onda la pubblicità contro la pirateria, lei mi guarda nelle palle degli occhi e mi sussurra dolcemente: “Sei davvero un pazzo. Guarda che l’ho capito che hai affittato la sala tutta per noi…”. “Oh mamma mia! E adesso chi glielo spiega che non è affatto così e che l’idea non ha mai e poi mai neanche sfiorato il mio cervelletto? Ora si aspetterà qualcosa tipo De Beers, il diamante per sempre. Con io che gli faccio vedere un filmino di varie scampagnate fatte insieme, dopodichè caccio dalla tasca una scatoletta con dentro un Trilogy e le chiedo di sposarmi”. Inizio a sudare freddo. “Ma perché non son rimasto a casa a vedere Ascoli-Messina? Oltretutto ho schierato anche Paolucci (giovane promessa dell’Ascoli) nella mia squadra del fantacalcio.

Scusate se interrompo questa appassionante storia, il proseguo ve lo narrerò in un’altra puntata. Vi dico solo che oggi sono single. A parte l’ironia, tutto ciò è stato un pretesto per rispondere a una semplice domanda: “Che fine ha fatto la gente che una volta andava al cinema?” Di risposte me ne sono date e me ne hanno date tante: film scaricati da E-mule, dvd “appezzuttati” (come si dice a Napoli), Fiction, Grande fratello, Un-due-tre stalla!, multisala e così via. Ora, non voglio fare lo snob da quattro soldi che disprezza tutto ciò che è televisione, tutto ciò che rientra nella categoria “programmi d’intrattenimento”. Giusto per chiarirvi le idee; ve lo confesso: torno ogni giorno a casa prima delle 20:25, perché alle 20:27 inizia “Un posto al sole”. Su questo ci siamo, ma quello che non capisco è il motivo per il quale è andato a farsi friggere tanto di quel romanticismo, che ne è rimasta solo qualche briciola. Per me, vedere un film “appezzuttato” seduto davanti al computer, vedere un film in una saletta stretta e lunga – intendo la multisala –, non è la stessa cosa che gustarmi una proiezione in una sala grande, dove non è cambiato molto nel tempo; manca solo il fumo di sigaretta che si annuvola sotto il soffitto. Il film ha tutto un altro gusto, la completezza del godimento c’è.

Tutta un’altra storia va fatta per il teatro, dove l’età media degli spettatori si aggira intorno ai quarantacinque anni. Una sera, mentre aspettavo l’inizio di uno spettacolo di teatrale a Gaeta con Nando Paone, mi guardavo intorno e non riuscivo a trovare un ragazzo; ma pure un trentenne… Neanche l’ombra. A dir la verità, mi sentivo un po’ in soggezione. Mentre era affondato nella mia poltroncina mi ha riconosciuto e si è avvicinato un mio vecchio professore: “Ciao Coiro, che ci fai da queste parti?” Io, preso dall’imbarazzo, mi son preso sotto braccio una vecchietta seduta al mio fianco e gli ho risposto: “Niente, sono venuto ad accompagnare mia nonna”.Sarò pure un vecchio romantico che fa discorsi anacronistici, ma c’è la consapevolezza che non sono poche le persone che la pensano come me e provano le mie stesse sensazioni.A tutti loro lancio un semplice appello: “Resistere! Resistere! Resistere!”

13 aprile 2007

Festeggiamenti?

di Federica Ciccariello

Spesso associamo alcuni mesi ad una particolare ricorrenza che vi si celebra. E così come Dicembre appare il “mese di Natale”, di marzo si ricorda il più famoso giorno, ovvero l’8 , festa della donna! Sembra già di vedere le strade colorarsi di una sfumatura gialla, sentire auguri scambiati così, a volte distrattamente, come per prassi. Le mimose che fioriscono nei giardini, e i manifesti che per strada sponsorizzano una particolare serata al femmine. I locali che si preparano all’evento, i fiorai che già calcolano l’affare di guadagno che trarranno dai festeggiamenti di una ricorrenza che non dovrebbe avere nulla dell’odore della festa. Infatti, anche se purtroppo molti ne ignorano le origini, o perlomeno lo sviluppo, l’8 Marzo, nata come giornata di lotta è divenuta sempre più commercializzata, perdendo l’importante significato storico-sociale che essa rappresenta. Puntualmente ogni anno si sente qualcuno che dice “Ah, sì… ricordo qualcosa. Il fatto dell’incendio…”. Proprio così, ricordi sbiaditi, appresi quasi per caso e citati con lo stesso tono di come si ricorda una favola dell’infanzia.

Ebbene, la storia è diversa, e forse meriterebbe un po’ più di conoscenza. Nella festa della donna non è tanto l’emancipazione femminile che si festeggia, quanto proprio la “liberazione” femminile degli atavici pregiudizi di ineguaglianza. Perché se nei tempi antichi la donna aveva un’importanza rilevante anche nell’ambito sociale (si pensi alla civiltà egizia, alle polis greche, all’antica Roma, dove erano perfino sette le giornate dedicate alla celebrazione delle diverse virtù delle donne), con il passare del tempo però, questa mentalità è andata annebbiandosi, complice anche la diffusione delle diverse religioni che presentavano la scissione profonda della donna, descritta o come santa o come peccatrice; fino ad arrivare poi al Medioevo, dove la considerazione della figura femminile è degenerata in ignoranti superstizioni di stregoneria che sono costate la vita a non poche persone. Con l’età della Ragione si è avuto il risveglio delle coscienze, e in questo periodo si fondano le radici della successiva mobilitazione sociale. Parlando di date, è al ‘900 che risale l’origine di questa festa, precisamente al 1910, quando nell’Internazionale Socialista di Copenaghen, Clara Zetkin e Rosa Luxemburg propongono l’istituzione di una giornata per la lotta dei diritti delle donne. Si pensò all’8 marzo, forse in riferimento alla data del primo sciopero delle lavoratrici newyorkesi del 1857, represso dalla polizia, o alla cronaca americana del primo secolo, non sicuramente attendibile: l’incendio dell’opificio Cotton di Chicago in cui persero la vita 129 lavoratrici, rinchiuse nella fabbrica dal proprietario per impedirle di uscire; o in riferimento al 1909 quando le operaie della Triangle Shirtwaist Company di New York iniziarono una protesta che si protrarrà per due anni, culminando con l’incendio in cui 146 donne, per la maggioranza immigrate italiane ed ebree, morirono tra le fiamme, chiuse nell’edificio per il timore dei proprietari che rubassero qualcosa o facessero troppe pause. Sembra che in quell’occasione l’assicurazione risarcì le famiglie delle vittime: 75 dollari fu quantificata in monete la vita di una donna!

Se questi eventi sono realmente accaduti o no, poco importa per il significato vero della ricorrenza. La data è stata considerata come simbolo della rivendicazione dei diritti naturali delle donne, e per questo anche le operaie di Pietroburgo manifestarono in questo giorno, nel 1917, contro la guerra e la carestia per fame. E così, nel 1977, l’UNESCO proclama tale data giornata internazionale della donna, anche se nei paesi europei già da molto veniva ricordata. Infatti risale al 1946 la tradizionale associazione, tipica in Italia, della giornata alle mimose: in quell’anno l’UDI (Unione Donne Italiane) pensò ad un fiore che accompagnasse, come riconoscimento, quella giornata. Anche se forse la scelta fu orientata da questioni pratiche, per lo più economiche , la mimosa esprime a pieno l’intento di quelle donne, poiché il colore giallo è simbolo di forza e vittoria, del passaggio dalla morte alla vita, di rinascita, proprio come la pianticella vigorosa e gentile che lo fiorisce, che non appassisce mai durante il corso delle stagioni eppure si rinnova sempre. L’ 8 marzo non è una giornata “femminista” ma è una questione di diritti, di riscatto, di uguaglianza sociale in ogni sua forma, e rammarica sapere che nel terzo millenio è ancora diffusa la mentalità secondo cui “sono due i posti adatti ad una donna: la casa di suo marito e la tomba”.

15 febbraio 2007

Fierezza sotto i tacchi

di Paolo Coiro

Un ragazzo cresce nella propria città, si fa cullare da lei, vive le sue strade, le sue contraddizioni, i suoi inverni freddi, le sue regole, le sue estati sudate, le sue incapacità. La vive, la ama, la odia. Come si fa a una persona a cui si vuol bene.

Poi, un bel giorno scopri tutto. Inizi a guardarti meglio in giro, a domandare e domandarti. Comprendi alcune cose e acciuffi delle altre; rimani impantanato in un circolo vizioso di idee morte e risorte morte. Al primo incontro fai fatica a crederci. Come quando esci – dopo tanto penare – con la ragazza che desideravi da sempre. Passi con lei i primi diciotto minuti, dopo i quali inizi a domandarti: “Ma cosa ci trovavo di così eccezionale in questa ragazza?”

Quando la voce non è più solo una, quando le bombe non si accendono più a Villa San Martino ma a via Indipendenza, quando chiedi a un politico se Gaeta è pulita o sporca e lui ti risponde prendendoti in giro per aver insinuato qualcosa di assurdo: “Ma quando mai! Gaeta è un’isola felice!”. Ora inizi a notare più cose, a far attenzione ai particolari. Guardi le persone negli occhi provando a entrarci dentro. Alcune facce ti appaiono deformate, ingrassate, quasi grottesche. Torni a casa la sera, mentre indossi il pigiamino – dimessi i panni da fiero cittadino – ripensi a quella stretta di mano tra quel politico e quell’altro capo del popolo – o di una sua piccola famiglia -. A quella voce da verificare, a quell’imbroglio tangibile. Così ti sale un groppo alla gola fatto di nausea, di schifo, di rabbia. La prima immagine è Gaeta sotto le vesti di un’anziana signora che muore. Ti rattristi. Ti rattristi, poi la rabbia prende il sopravvento, ma cerchi di rattenerla. Poi ragioni da onesto cittadino, pensi che bisogna lottare per la verità, per quell’orgoglio che non deve crepare. A un tratto sei a un passo da una vera e propria scelta di vita: donare la tua persona, tutta per questa causa (vedi Roberto Saviano). Così, hai i fondamenti per fantasticare te in un futuro vicino, mentre vai in giro con la scorta. Col tempo, tutto quest’orgoglio va a scemare. Sogni di meno. T’innamori di una bella ragazza, pensi di meno alla merda che vedi; questa sembra tramutarsi in un tappeto dove crescono margheritine bianche.

Un giorno un tuo vecchio amico con il quale avevi programmato e discusso circa quella battaglia sociale ti viene a bussare alla porta. Ti trova sbracato sul divano, mentre sorseggi una mezza birra e giochi alla play station e canti: “Non dirmi mai che siamo stati a letto per un giorno intero!”. Lui ti sussurra all’orecchio una parolina: “Malavita…”. Ma quasi non lo senti; stai esultando come uno scalmanato perché hai fatto gol in rovesciata con Ronaldinho.

28 gennaio 2007

Nell’indietreggiare… la scuola si rinnova

America under attakdi Emanuele Di Mascolo

Ricordo il mio primo giorno di scuola superiore in modo vago. Quando si è nuovi ci si sente a disagio, oserei dire quasi inopportuni, rispetto al contesto. Ho trascorso anni spensierati tra i banchi di scuola (sei per l’esattezza), ho conosciuto persone a cui mi sento legato in modo fraterno. A volte riaffiorano nella mia mente pensieri, profumi,volti amici: Giannino, Mauro, Robertino, Simona ed Ersilia. Ci sono giorni che non possono essere dimenticati, momenti di vita trascorsi insieme, irripetibili. Un giorno, sentii dire dal preside in una delle sue tante ammende, che “la scuola in fondo non è altro che uno spaccato, un modello in piccolo della società in cui viviamo”. Io non mi spingo così lontano in simili comparazioni, ma quanto meno credo che qualche paragone possa essere fatto. Intendo la scuola come un filtro, o meglio uno specchio riflesso in cui si ripercuotono determinate problematiche esterne. Benché le relazioni materiali tra gli uomini siano ben altra cosa, nella scuola moderna è dato scorgere il carattere ambiguo e contraddittorio che questa struttura sempre più rappresenta. Sono ormai lontani gli anni delle grandi rivendicazioni per un sapere autentico, in grado di sviluppare quella capacità critica nei soggetti che apprendono. Oggi la scuola italiana si configura sempre più come semplice appendice del sistema d’impresa, modellandosi secondo le sue esigenze di congiuntura. Qualcuno si è spinto persino oltre, parlando di scuola-azienda. Dopotutto, perché stranirsi? Noi nel bel paese ci abbiamo già un partito azienda, un ex presidente del consiglio che divenne presidente a suon di voti per difendere gli interessi della sua azienda, e poi poco importa se quelli che ci rimettono sono sempre gli stessi; tanto oggi, ormai ognuno è “imprenditore di se stesso”. Ci hanno riempito le orecchie di parole come competitività, flessibilità, specializzazione dei saperi, efficienza. Ma siamo sicuri che queste categorie e criteri siano applicabili nel campo del sapere senza che il sapere stesso ne venga compromesso? Fino a che punto è desiderabile la cosiddetta razionalizzazione dei programmi scolastici, se il risultato finale è quello di ritrovarsi dei perfetti semi analfabeti? Quando ero al Nautico, qualche riformatore illuminato pensò bene di introdurre l’uso dei moduli nel procedimento didattico. Ci dissero che con questo sistema si sarebbero colpiti i furbi, quelli che non studiano, parassitando sulle spalle dei compagni più studiosi. Vennero sospese le interrogazioni orali, il programma fu suddiviso in moduli, ed alla fine di ogni modulo doveva essere sostenuta una prova scritta. Credo che il risultato migliore di questo metodo sia stato quello di riuscire a far disapprendere quel poco di italiano parlato che qualcuno di noi conosceva. Per quanto riguarda i furbi, invece di essere stati colpiti, in realtà sono stati favoriti, non studiavano e i compiti in classe si copiavano. Poi venne l’università. Con le sue lauree brevi, i suoi ritmi forsennati e i suoi scarni programmi. Ricordo ancora lo stupore che provai quando scoprii che quello che stava preparando un mio amico non era solo un famigerato”modulo” di storia contemporanea, ma bensì l’esame di storia contemporanea. Un libro all’incirca di 150 pagine, che trattava del fascismo e della seconda guerra mondiale. Come era possibile, che un esame così importante si riducesse alla trattazione di soli due argomenti, seppur di vitale importanza per la comprensione del secolo ventesimo? Forse la flessibilità ci entrava qualcosa, ora cominciavo a capire anche io cosa poi questa significasse. Nel senso prettamente contrattuale del termine significava che potevano mandarti a casa quando volevano, delle tue ricerche l’Italia non sa che farsene, sei semplicemente uno che viene strizzato all’uopo, l’uomo buono per tutte le stagioni.

L’Italia è il paese in cui gli stipendi dei professori sono tra i più bassi di tutta Europa. E come se non bastasse, è anche il paese in cui il finanziamento pubblico alla ricerca è praticamente irrisorio. I ricercatori sono una categoria che può vantare un salario da fame, e poi debbo sentirmi dire dal professore di sociologia dello sviluppo, che la classe lavoratrice non esiste più, o che non c’è più sfruttamento; voi come gli definireste 800 euro mensili per più di dieci ore di lavoro al giorno? Così succede di assistere a una vera e propria fuga di cervelli. E il mondo è pieno di lidi pronti ad accoglierli. Paesi come gli stati uniti, la Finlandia, la Norvegia, per non parlare di India e Cina, spendono per la ricerca qualcosa come il sette per cento del prodotto nazionale lordo. L’Italia è indietro,tremendamente indietro. E le riforme di Berlinguer e Moratti non fanno altro che esasperare questa situazione. La flessibilità che lor signori stanno a poco a poco imponendo al mondo dell’istruzione, uccide il pensiero, uccidendo il pensiero si uccide la scienza. Vorrei chiudere questo brevissimo scritto ricordando una citazione di Bertolt Brecht raccolta nel suo diario di poesie: “Ogni anno in settembre, quando comincia l’anno scolastico le donne nelle cartolerie dei sobborghi comprano i libri di scuola e i quaderni per i loro bambini. Disperate cavano i loro ultimi soldi dai borsellini logori, lamentando che il sapere sia così caro. E dire che non hanno la minima idea di quanto sia cattivo il sapere destinato ai loro bambini".

06 gennaio 2007

Buon compleanno "L'illogica allegria"

Un anno: i primi dentini, i primi passi, le prime sculacciate, i primi sorrisi...

di Paolo Coiro


Nato così, quasi per scherzo, senza un’idea editoriale vera e propria, senza una struttura ben definita. Il nostro giornale compie un anno; spegne la prima candelina e… tutti a mangiare la torta. Partiti in sette-otto ragazzi, partiti con otto pagine, partiti con mille copie distribuite solo a Gaeta. Oggi siamo circa venticinque collaboratori, il mensile è di dodici pagine, stampiamo duemila copie distribuendole a Gaeta e Formia. Insomma, qualche passetto avanti è stato fatto, e altri se ne faranno. Una tappa davvero importante è stata firmata il 10 ottobre 2006: con l’autorizzazione del tribunale di Latina siamo diventati una testata giornalistica ufficiale. Finisce il periodo del giornaletto mezzo abusivo e, anche noi, iniziamo a sentirci qualcosa che si avvicina a un giornalista.

Col passare del tempo creiamo una struttura editoriale definita e un organigramma redazionale. Ognuno ha il suo compito, ognuno cura la sua rubrica più vicina ai suoi interessi. Da Enrico De Santis, alias dottor Neutrone Pensieroso, a Luca di Ciaccio affacciato alla sua “Finestra sul cortile”. A pensarci bene, immagino proprio così tutti noi: affacciati a una finestra che dà su uno spiazzo, su un cortile, su un’altra finestra (che tristezza…), sulla strada. Tutti lì a fissare con occhi trasognati qualcosa o qualcuno. Su oggetti e persone fondiamo il nostro pensiero leggero dal quale traiamo il nostro spunto, la nostra riflessione, la nostra scoperta. Durante le periodiche riunioni, le discussioni non sono mancate: alcune abbastanza animate, altre più leggere; interrogativi del tipo: “Perché Rotondino uomo immagine?”. Oppure il guastafeste Benedetto a cui nulla sta bene. Ci si scontra per trovare un punto d’incontro, ci si perde un po’ d’animo poi si riparte a mille.

Una delle vittorie più grandi è stata nel momento in cui siamo stati contattati da altri ragazzi di Gaeta che neanche conoscevamo. Ti dicono che anche loro vogliono far parte di questo progetto. Vedi arrivare alle riunioni altri giovani rampanti e pieni d’idee. Allora capisci che si può solo migliorare, che non sei un caso isolato, ma anche altri hanno il tuo stesso spirito. Il nostro modesto orgoglio viene rinvigorito quando l’edicolante ci avvisa che più di una persona gli ha domandato quando sarebbe uscito il nostro giornale. Così, ascolti voci di apprezzamento, critiche feroci, vedi scritte sui muri contro “L’illogica allegria”. Va tutto bene; mettiamo in circolo delle idee, delle opinioni. Non vogliamo osannarci troppo. Siamo un granellino della spiaggia di Fontania (dico Fontania così ci sentiamo meno piccoli), ma siamo comunque una realtà unica a Gaeta. Pronti a dire la nostra su temi locali e nazionali. Sul politico, sul commerciante, sul tifoso, sul pensionato… Non vorremmo diventare un giornale locale, cerchiamo di mantenere il nostro sguardo su un’angolatura abbastanza ampia, però, siamo sempre interessati ad analizzare questo presepio – e non villaggio nordico, per carità! -, il nostro paese, la nostra Gaeta. Pronti a tessere le sue lodi, pronti a tirarle le orecchie, pronti a punzecchiarla un po’. Penso che sia interessante, anche per gli adulti, leggere come i giovani vedono Gaeta. Non possiamo sbilanciarci troppo, altrimenti qualche politico potrebbe rubarci dei nostri punti di vista, delle nostre idee; candidarsi a sindaco e poi vincere di sicuro le elezioni.

Nel frattempo, noi siamo qui: su queste pagine e per le vie di Gaeta. C’è Paoletto Bellipanni che legge Baudelaire, scrive poesie, e scrive per la rubrica “Il concetto”. Della sua squadra fanno parte Federica Ciccariello – anche lei amante di letteratura e poesia – e Giovanni Gaetani, pronto a filosofeggiare, a citare, ma anche sempre pronto a dire cazzate mentre si cerca di trovare una soluzione. Enrico De Santis: il sopra citato dottor Neutrone Pensieroso. Cura con dedizione la sua rubrica scientifica e periodicamente ci regala qualche sua apprezzata vignetta. Insieme a lui c’è anche l’ingegner Filippo Forcina; ma lui ha fatto una scelta: a elettroni, calcoli e particelle molecolari, ha preferito salsiccia, fagioli, bisteccone, pasta fatta in casa. No, non lavora con Antonella Clerici; si occupa della rubrica “Tavola imbandita”. Insieme al nostro fotografo ufficiale – nonché grafico e vignettista – Nicola Di Liegro, vanno in giro a scovare ristorantini da pubblicizzare su L’illogica. Sono quelli che ci guadagnano di più: scroccano pranzi e pranzetti a volontà. Piccola nota di costume: Forcina è stato soprannominato “Il re del piparuolo”, per la sua predilezione per i peperoni… Luca Di Cecca: ultimo acquisto. Arrivato insieme ad Andrea Lisi – che si occupa anche lui de “Il concetto” – ha proposto una sua rubrica: “Una vita”. Ogni mese ci regala una breve biografia di un personaggio famoso. Il quasi omonimo Luca Di Ciacco è sempre lì affacciato alla finestra del suo appartamento di Roma, mentre Benedetto Milanese e Bruno Forosetto se ne vanno in giorno a fare interviste. Interviste doppie per la rubrica “In my opinion”. Da poco siamo diventati anche internazionali grazie all’inviato da Londra sir Davide Nardone. Andato via Caprarica, ha preso il suo posto… Si vocifera che abbia iniziato a comprarsi anche le sue stesse cravatte. Oltre che internazionali siamo anche nazionali. Sì, perché da Battipaglia la carissima Angela Pellegrino si è così affezionata al nostro giornale, che ogni mese ci invia le sue deliziose e uniche recensioni di libri scelti da lei. Dalla capitale, tra i tanti, salutiamo Antonio Vaudo ed Erasmo Fedele; quest’ultimo ha iniziato a curare una rubrichetta sul dialetto gaetano. Altra gradita firma rosa è quella di Mariachiara Stenta, oltre alla correttrice di bozze Linda Coiro. Ha detto che “per fare carriera bisogna partire dal basso”... “Lavori in corso” per Daniele Di Russo e del presidente Emanuele Di Mascolo, questo il titolo della loro rubrica. Il numero di fotografi è aumentato nel giro di poco tempo, ne abbiamo ben quattro: Francesco Cicconardi che ci manda i suoi scatti da Siena, Nicola Di Liegro, e i cugini formiani Massimiliano Maddalena e Centola. Un ringraziamento particolare va al nostro direttore Alberto Reggiani che ci segue dall’alto... ops... dal nord volevo dire. Da Latina. Dulcisinfundo il nostro Rotondino, al secolo Valerio Spinosa. Non solo ha iniziato a curare la rubrica di “Aphorism.it” selezionando aforismi, poesie e racconti, ma è soprattutto il nostro uomo immagine. Questo è tutto. Un arrivederci a l’anno prossimo, dove ci ritroveremo più invecchiati ma sempre pronti a osservare come gira il mondo e la nostra cara Gaeta.

27 dicembre 2006

Sogno

di Paolo Bellipanni

Se ci fossero note di violini a scandire gli attimi della nostra vita, se a giocare con il sole fossimo noi al posto delle nuvole, se dietro quell’infinito orizzonte ci fossimo noi assieme al tramonto, allora diremmo di vivere in un sogno, in quell’atmosfera che nel cuore di ogni persona si infiamma tagliando l’etere con il volo dei suoi ardenti tizzoni. Il sogno è come un cuscino sul quale appoggiare i propri sentimenti, le proprie riflessioni, i propri ricordi, ma non è solo questo perché il sogno rientra in una sfera che va oltre il pensiero e il sentimento raggiungendo le sponde dell’ignoto. Tutto ciò pare una stupidagine, ma non lo è perché è soprattutto grazie ai sogni che una persona riesce a trovare lo smalto per correre con sapienza i passi della vita; sono i sogni ad aprire le porte e i cancelli dell’anima. Ma tutto ciò non deve passare solamente come una mera fantasia personale, come la concretizzazione immaginaria di pensieri fluttuanti nella nostra testa, perché il sogno è come l’acqua per un fiume, o come il fuoco per l’incendio. Esso è uno strumento straordinario, probabilmente l’unico mezzo per approdare sulle sponde dell’eternità che ogni uomo nel suo piccolo cerca, è un qualcosa di assoluto e primordiale, come un albero che per sempre sta fermo mutando il suo aspetto col calar delle stagioni, lasciandosi abbandonato alla malinconia autunnale per poi riprender colore con l’amore primaverile. Ma un vero sogno non è quello scaturito dai nostri sentimenti amorosi, né quello che vien suggerito dalla mente o dallo sguardo; l’essenza e la purezza del sogno si hanno quando si è assaliti da un’onda improvvisa e maestosa nella sua unicità, un’onirica incarnazione di solitaria pace e tranquillità. E’ come se lasciassimo cadere una nostra lacrima nel mezzo di un lago, osservando le sue piccole e leggere onde fluire geometricamente nell’acqua e sentendo allo stesso tempo un impetuoso maremoto di sensazioni e passione sbattere internamente sulle pareti del cuore che, in preda a tale cavalcata d’emozioni aumenterebbe vertiginosamente il suo battito, sempre più forte, sempre più deciso. Il sogno è la terminale meditazione, l’attimo in cui tutto ciò che ci è attorno si allontana rimpicciolendosi al livello dell’orizzonte lasciando spazio soltanto ai soliloqui della nostra anima, tra poesia e visioni sussurrate da voci infinite. Sognare è in qualche modo una filosofia dello spirito che addormenta e ipnotizza il corpo e la mente lasciando fluire solo e soltanto ciò che proviene dalla più oscura insenatura della nostra profondità. Non sono occidentali sentimentalismi pseudoromantici (come quelli della decadente società giovanile), né semplici pensieri che balzano alla mente su suggerimenti, perché quando si sogna si è in un certo senso consapevoli di farlo, ma allo stesso tempo si è dietro pareti inesistenti, celati e nascosti agli altri e anche a noi stessi, sennò perché tale parola è legata al sogno notturno? Perché in quel preciso istante si è in una condizione di realtà immaginaria percepibile solo a tratti dato che si è posseduti dall’inconscio individuale che ci pone tra due spazi ben definiti, ovvero quello della consapevolezza e quello della “non presenza”. Per tal motivo il sogno non è nulla di reale, anzi, è totalmente fuori da qualsiasi recinto conoscitivo materiale, è una stella senza galassia che effimera e libera vaga nel nostro cosmo, nella nostra vita. L’uomo deve con umiltà crogiolarsi nel perfetto equilibrio che sta tra il sogno stesso e il provare a realizzarlo. Una mera fantasia fine a se stessa non può essere definita “sogno”, bensì tale condizione si può raggiungere solo e soltanto quando l’uomo si pone nella Via di Mezzo, ovvero nel preciso punto in cui si ha congruente equidistanza dai due opposti dell’anima: il reale (ovvero il pensiero) e l’inconscio. Non si può vivere solamente nella solitaria atmosfera dei sogni perché, realisticamente parlando, è come vivere costantemente in un sonno notturno senza aver la capacità di distinguere più l’esperienza diurna che, essendo il punto antipodale di ciò che il sogno ci “rivela”, è fondamentale dato che ogni fenomeno nasce in relazione con un altro fenomeno. In tal modo attorno al sogno si può costruire la sua essenza più pura e in qualche modo più giusta, la cornice che renderebbe completo questo onirico quadro. Perciò, solamente abbandonando le subdole e suggerite reincarnazioni del finto sogno occidentale e cogliendo la verità nel suo significato intrinseco si può vivere pienamente la bellezza di quest’attimo così intenso e universale, una semplice voce che nell’improvvisa fugacità della sua durata rapisce e immortala la nostra anima nella sua, mentre sentiremo tale voce scomparire in un’infinita eco che si ripercuoterà in noi stessi lentamente.

Il sogno nei nostri tempi viene più considerato come una mera fantasia e come un desiderio piuttosto che come l’attimo della fase REM in cui tale sviluppo della ragione rientra senza volerlo nel subconscio. In qualche modo questa seconda affermazione presenta strutturalmente la vera entità del sogno visto come improvviso e incontrollato momento di cessazione della realtà, incarnazione del nostro essere che nel sogno non è presente, bensì inconsapevole di ciò che esso stesso sta producendo. Giunti a questo stadio del processo onirico, ovvero l’assenza del pensiero e della realtà conoscitiva, si arriva al compimento finale del sogno che si identifica, attraverso uno specchio, con il momento culmine della fase REM del nostro sonno.

Sognare non è una semplice dimensione, come non è sogno l’atto dell’appoggiare la testa sul vetro dell’autobus e farsi invadere la testa di pensieri indipendenti e slegati. Il sogno è l’attimo d’estrema libertà, in quanto si è liberi anche da se stessi, dalla propria mente, e dalle catene del proprio pensiero, adesso celato dall’avvento del nostro inconscio. Perciò, tra tale condizione non conoscitiva e la base materiale sulla quale poi tal sogno dovrebbe snodarsi, l’uomo deve porre il sentiero su cui camminare in equilibrio, posando i suoi occhi sugli alberi e sulle sue foglie (la realtà) e lasciando cadere qualche fugace ma intenso sguardo all’orizzonte che nel nome del sogno brucia e arde.