Piccola città, bastardo posto
di Paolo Coiro
Corro verso la cima di Monte Orlando per ammirare Gaeta dall’alto. Salgo sul Colle, da lì si vede il porto. Su a Forte Emilio, tra campagne e frasche. Terre a Sant’Agostino, m’immergo nel verde bruciato, tra zolle di terra e campi innaffiati, tra ravanelli e insalata. Entro dalle Suore della Misericordia in Via Atratina, dove ho fatto l’asilo, le elementari. L’odore è sempre lo stesso. Esco fuori al cortile e realizzo il mio sogno: suonare la campanella, la stessa cordicella che tirava suor Anna. Poi vado alle medie, alla Carducci. Faccio il giro della scuola che ci obbligava a fare il professor D'Andrea, prima di darci la perla: il super santos. Giocavamo in mezzo al polverone. Ricordo la maglietta del Liverpool di Sandro. Me l’aveva prestata e l’ho strappata involontariamente. Rimasto appeso al cancello da scavalcare, per andare a recuperare il pallone che Armando aveva lanciato dentro la succursale del Liceo. Sono a Piazza Trieste. Quelle panchine sono durate due giorni, smontate fino all’ultima vertebra. Entro al Nautico: ma Luigi il bidello che fine ha fatto? Vado su, sopra il terrazzo, dove con Sandro e altri passavamo la lezione di matematica. Mi faccio tutti i corridoi di corsa ed esco da scuola col fiatone.
Dove si va? Un giro per Gaeta Vecchia – e non “Medioevale”, non mi piace affatto -. Si sale per le curve di San Martino. Curve a “u” che Lino si faceva - a scendere – con il freno a mano, con quella buonanima di Pandino. Lì a San Martino, non si andava solo per vedere il mare. Allora scendo e mi faccio prima una capatina in “Culonia”, poi quattro passi con le mani in tasca scendendo per Stradello Raschi, arrivo a Serapo, mi siedo un po’ sul muretto e sorseggio una nastro azzurro fresca. Vado a casa, pranzo e vado a prendermi un caffè in amicizia: in Triestina, da Brio bar, a Bazzanti, dove non ci sono “né eroi, né santi”, come canta Eufrasio Burzi. Verso le sette di sera faccio un giro sul Corso. Guardo cosa danno al cinema, saluto Erasmo e qualcun altro. Poi, mentre sto passando davanti la banca San Paolo, noto una scritta su un muro fatta con lo spray: “L’illogica codardia”. Da ignorante quale sono, vado a casa e cerco il lemma codardia sul dizionario. Codardia: un sinonimo è vigliaccheria. Il termine vigliacco viene dal latino villus: pelo, con significato di peloso, villano. Su questo è vero, il nostro presidente sarà pure un po’ troppo peloso, ma di certo non codardo; come del resto noi altri. Ma… per codardo si può intendere anche una persona che scrive qualcosa senza firmarsi? Mah… Devo pensarci.
Il giorno dopo prendo l’autobus per Formia, la stazione. Treno per Roma. Ci rimango un mese: seguo lezioni all’università, studio il pomeriggio, a volte esco per la capitale. Torno a Gaeta dopo trenta giorni. Non vedo l’ora di andarmi a prendere una birra al Jamming, da UMM, da Hermes, da Tatore Little bar, da Tonino. Io e gli altri. A Gaeta. A Formia, aspetto dieci minuti l’autobus Formia-Gaeta. Era passato anche Peppe che mi aveva offerto un passaggio in tre nella Smart. Rifiuto. Ma non perché sto stretto nella Smart, no. Perché voglio vedere quel mandolino rivoltato – che è Gaeta – dal vetro mezzo sporco e appannato dell’autobus. Ammirare il tutto e sentirmi davvero meglio. Dopo mezza giornata che sono a Gaeta; dopo il caffè, la birra, due chiacchiere, la partita a calcetto… forse mi sono già scocciato. Ma son tornato per poi ripartire. Vado via per poi ritornare.
Gaeta rimane nel nostro cuore, ricordo dolce, ricordo amaro. Indissolubilmente legati alla nostra terra, tanto odiata, tanto amata. Quel groppo che mi sale alla gola quando sono costretto a stare 3-4 mesi a Bergamo, dove lavoro. Cento giorni tra la nebbia, riscaldati da un sole fiacco, tra posti tutti uguali. Lì, mentre sogno di star seduto a Bar Bazzanti con Vittorio che canta: “So gliu figl’ d’ Ndesc’, la panz cresc’ e la pensione s’avasc’”. Con Robertone che urla a Giovanni intento a pescare: “Giova’ so purp?”, con Italo che passa in bicicletta col giubettino Italia ’90, con qualcuno che mi scrocca un caffè… A Gaeta. Potrebbe essere la tua storia da abitante di Gaeta, potrebbe essere una pagina su cui si è sprecato inchiostro… oppure, è il respiro di un uomo che sente dentro di sé quell’essere ragazzo. Quell’uomo che sale sul campanile per vedere la città dall’alto (come amava fare Montesquie). Un tocco di campana, un brivido lungo la schiena, uno sguardo da est a ovest, un respiro che sa di mare, che sa dell’essenza del nostro caro e bastardo paese.
Corro verso la cima di Monte Orlando per ammirare Gaeta dall’alto. Salgo sul Colle, da lì si vede il porto. Su a Forte Emilio, tra campagne e frasche. Terre a Sant’Agostino, m’immergo nel verde bruciato, tra zolle di terra e campi innaffiati, tra ravanelli e insalata. Entro dalle Suore della Misericordia in Via Atratina, dove ho fatto l’asilo, le elementari. L’odore è sempre lo stesso. Esco fuori al cortile e realizzo il mio sogno: suonare la campanella, la stessa cordicella che tirava suor Anna. Poi vado alle medie, alla Carducci. Faccio il giro della scuola che ci obbligava a fare il professor D'Andrea, prima di darci la perla: il super santos. Giocavamo in mezzo al polverone. Ricordo la maglietta del Liverpool di Sandro. Me l’aveva prestata e l’ho strappata involontariamente. Rimasto appeso al cancello da scavalcare, per andare a recuperare il pallone che Armando aveva lanciato dentro la succursale del Liceo. Sono a Piazza Trieste. Quelle panchine sono durate due giorni, smontate fino all’ultima vertebra. Entro al Nautico: ma Luigi il bidello che fine ha fatto? Vado su, sopra il terrazzo, dove con Sandro e altri passavamo la lezione di matematica. Mi faccio tutti i corridoi di corsa ed esco da scuola col fiatone.
Dove si va? Un giro per Gaeta Vecchia – e non “Medioevale”, non mi piace affatto -. Si sale per le curve di San Martino. Curve a “u” che Lino si faceva - a scendere – con il freno a mano, con quella buonanima di Pandino. Lì a San Martino, non si andava solo per vedere il mare. Allora scendo e mi faccio prima una capatina in “Culonia”, poi quattro passi con le mani in tasca scendendo per Stradello Raschi, arrivo a Serapo, mi siedo un po’ sul muretto e sorseggio una nastro azzurro fresca. Vado a casa, pranzo e vado a prendermi un caffè in amicizia: in Triestina, da Brio bar, a Bazzanti, dove non ci sono “né eroi, né santi”, come canta Eufrasio Burzi. Verso le sette di sera faccio un giro sul Corso. Guardo cosa danno al cinema, saluto Erasmo e qualcun altro. Poi, mentre sto passando davanti la banca San Paolo, noto una scritta su un muro fatta con lo spray: “L’illogica codardia”. Da ignorante quale sono, vado a casa e cerco il lemma codardia sul dizionario. Codardia: un sinonimo è vigliaccheria. Il termine vigliacco viene dal latino villus: pelo, con significato di peloso, villano. Su questo è vero, il nostro presidente sarà pure un po’ troppo peloso, ma di certo non codardo; come del resto noi altri. Ma… per codardo si può intendere anche una persona che scrive qualcosa senza firmarsi? Mah… Devo pensarci.
Il giorno dopo prendo l’autobus per Formia, la stazione. Treno per Roma. Ci rimango un mese: seguo lezioni all’università, studio il pomeriggio, a volte esco per la capitale. Torno a Gaeta dopo trenta giorni. Non vedo l’ora di andarmi a prendere una birra al Jamming, da UMM, da Hermes, da Tatore Little bar, da Tonino. Io e gli altri. A Gaeta. A Formia, aspetto dieci minuti l’autobus Formia-Gaeta. Era passato anche Peppe che mi aveva offerto un passaggio in tre nella Smart. Rifiuto. Ma non perché sto stretto nella Smart, no. Perché voglio vedere quel mandolino rivoltato – che è Gaeta – dal vetro mezzo sporco e appannato dell’autobus. Ammirare il tutto e sentirmi davvero meglio. Dopo mezza giornata che sono a Gaeta; dopo il caffè, la birra, due chiacchiere, la partita a calcetto… forse mi sono già scocciato. Ma son tornato per poi ripartire. Vado via per poi ritornare.
Gaeta rimane nel nostro cuore, ricordo dolce, ricordo amaro. Indissolubilmente legati alla nostra terra, tanto odiata, tanto amata. Quel groppo che mi sale alla gola quando sono costretto a stare 3-4 mesi a Bergamo, dove lavoro. Cento giorni tra la nebbia, riscaldati da un sole fiacco, tra posti tutti uguali. Lì, mentre sogno di star seduto a Bar Bazzanti con Vittorio che canta: “So gliu figl’ d’ Ndesc’, la panz cresc’ e la pensione s’avasc’”. Con Robertone che urla a Giovanni intento a pescare: “Giova’ so purp?”, con Italo che passa in bicicletta col giubettino Italia ’90, con qualcuno che mi scrocca un caffè… A Gaeta. Potrebbe essere la tua storia da abitante di Gaeta, potrebbe essere una pagina su cui si è sprecato inchiostro… oppure, è il respiro di un uomo che sente dentro di sé quell’essere ragazzo. Quell’uomo che sale sul campanile per vedere la città dall’alto (come amava fare Montesquie). Un tocco di campana, un brivido lungo la schiena, uno sguardo da est a ovest, un respiro che sa di mare, che sa dell’essenza del nostro caro e bastardo paese.