30 settembre 2006

In viaggio

numero 7di Emanuele Di Mascolo

Sono state riempite migliaia di pagine nel tentativo di raccontare un viaggio. Chilometri di inchiostro, spesi nella speranza di regalare agli altri, cioè noi lettori, le sensazioni che animarono i protagonisti di quelle esperienze. E leggendo quei libri, spesso mi domandai quali potessero essere le motivazioni, che poi alla fine spingono certi uomini a partire, a decidere di andarsene; scegliendo il mondo come casa, la strada come amica. Percepivo tra le righe una tensione, un modo di porsi rispetto alle cose che si hanno intorno diverso, un modo diverso di intendere e decifrare il mondo. Per Jack Kerouac il significato del viaggiare era riconducibile semplicemente a questa frase: “Non so dove andiamo amico, ma dobbiamo andare”. Il ché dimostra un totale disinteresse verso il luogo in cui si è diretti, assolutizzando l’atto di spostarsi, di non avere fissa dimora, rendendolo così costitutivo, di una maniera altra di essere e percepire l’essenziale. Kerouac era già un uomo adulto quando scrisse “Sulla strada”, ma di lì a poco quel testo divenne una sorta di libro sacro della gioventù Americana. Una generazione che reclamava per se stessa un avvenire diverso, e inviò questo messaggio in tutti i modi che erano a sua disposizione. Quelli furono gli anni delle grandi adunate di Woodstock, dei figli dei fiori, della beat generation, delle pantere nere, dei giovanotti del presidente Carter mandati a combattere in Vietnam. Un pezzo di storia che fu contrassegnato dalla costante acquisizione di nuovi diritti, in cui il viaggio fu visto non solo come elemento di fuga, da una realtà bigotta, ma anche di lotta. Spostandosi, i giovani portavano in giro le proprie esperienze sociali, i loro usi e costumi, da una parte all’altra del mondo. Grazie anche ad una tecnologia sempre più sofisticata, fatta di voli a basso costo, e radioline e mangianastri portatili, si costituì una coscienza giovanile planetaria, che cambiò per sempre il modo di essere delle nostre società. Oggi il mondo è molto diverso, i ragazzi del 2006 non sono quelli del 1970. Scontiamo una contraddizione enorme, quella di credere di vivere in un mondo che oramai conosciamo alla perfezione. Abbiamo Internet, il satellitare, possiamo raggiungere l’altro capo del mondo nel giro di ore. Ma ciò nonostante, è come se pagassimo questa "globalizzazione", con una paura sempre più grande dell’altro, chiudendoci in noi stessi, rassegnandoci allo scontro di civiltà. Ed è paradossalmente in quest’epoca di cosiddetti “viaggi accessibili”, che dovremmo toglierci gli abiti dei turisti, per tornare ad indossare nuovamente quelli dei viaggiatori. Un turista ed un viaggiatore sono due cose molto diverse. Le motivazioni che sono alla base delle due figure sono molto diverse. Chi viaggia ed è un viaggiatore lo fa sempre portandosi dietro casa sua, l’amore per la propria terra e le sue radici; ed è proprio per questo, che così facendo conferisce pari dignità alle culture altrui, arriva ad amarle allo stesso modo; un viaggiatore è cittadino del mondo. Dovremmo tornare ad essere dei viaggiatori, soprattutto per comprendere le ragioni degli altri, cercare di vedere oltre il palmo della propria mano. Mentre scrivo il mondo è dilaniato dalla guerra, dalla sofferenza e dall’ignoranza, che soprattutto noi occidentali stiamo alimentando. Forse dovremmo realmente cominciare a volgerci indietro, tornare alle esperienze delle generazioni passate, farne tesoro e ripartire per costruire qualcosa di migliore. E se per far questo c’è bisogno di rimettersi uno zaino in spalla e partire, credo che noi (intesa come generazione) dovremmo cominciare a farlo. Adesso, perché domani forse sarà già troppo tardi. La vita è un viaggio, che per molti finisce in un naufragio; oggi io oserei dire che stanno diventando troppi. Quindi è tempo di rimettersi in cammino, verso dove? Verso un avvenire differente, costruendolo piano, viaggio dopo viaggio; con le altre genti di questo stupendo pianeta. Camminare incessantemente affinché capiscano che non vogliamo barriere, né bandiere che ci dividano. Partire, per poi casomai ritornare a casa, più ricchi di prima; proprio come ha scritto il nostro amico Fortunato Leccese:

"Gaeta".
Torna a Gaeta!
Ogni qualvolta sentirai d'esserti perso,
tra mille giorni tanto tristi quanto lesti
che questa vita fan guardarti di traverso.
Torna a Gaeta!
Quando la sorte le sue carte avrà scoperto.
Su strade impervie, dure o piane ed asfaltate
rimembra sempre il disincanto che'l cor t'ha aperto.
Torna a Gaeta!
Quando risposte a questa vita non avrai,
se intorno il vuoto stretto t'ha nella sua morsa
Torna a Gaeta
li troverai la tua risposta.
Torna a Gaeta!
Poiché nessun ti chiederà da dove vieni
se viaggi, scappi, ami oppur sei amato.
Torna a Gaeta
dove l'amore hai conosciuto,
dove mai verrai dimenticato.


Viaggiare è anche sinonimo di libertà. La libertà che si ritrova in una pace con se stessi e col mondo. Forse il tutto può sembrar troppo banale; ma di certo, non risuonano tali, le parole di Nelson Mandela: “Niente, come tornare in un luogo rimasto immutato ci fa scoprire quanto siamo cambiati”.