30 giugno 2006

Il sangue degli altri

di Emanuele Di Mascolo
C’è un’immagine del mio passato che a volte torna. Avrò avuto sette o otto anni, non ricordo bene; ma ricordo benissimo il volto allegro di mia zia, quel cesto di frutta che sopportava a fatica, mentre salivamo le scale di una villetta di campagna. Bussò il campanello, venne ad aprirci la porta una donna anziana, sulla ottantina, ci invitò ad entrare. Ero solo un bambino, ma credo che fu quella la prima volta che mi accorsi del dolore di qualcuno. Finita la visita, di ritorno a casa, domandai a mia zia cosa fosse successo a quella donna, perché era così triste, sola. E lei mi raccontò la storia di una vita spesa nel lavoro, nei campi; di un marito morto disgraziatamente in un cantiere, di un figlio troppo lontano, per lenire le sofferenze di una madre anziana. Mi parlò a lungo del dolore, quello degli altri; e ne parlava come se a me poi più di tanto non riguardasse, sicuro in un mondo fatto di giocattoli, affetto e domeniche in campagna. Anni dopo lei si ammalò; non aveva più i capelli, le braccia livide e bucate da chi sa quante flebo, gli occhi stanchi, gli stessi che scorsi in quella donna anziana anni prima. Mia zia era leggera, e dio solo sa quanto dolore ci volle per farla così leggera, finì due metri sotto terra. Provai immensa tristezza per la sua morte, volevo più bene a lei che a mia madre, incassai. È assurdo come tutto da un momento all’altro può cambiare, scivolarti dalle mani, travolgerti, annullarti. È in quelle situazioni che ci si rende conto che si è fragili, troppo deboli a cospetto della malattia, della morte. Ma la cosa peggiore che ti possa capitare, è quella di essere indifferente, non avere coscienza della sofferenza altrui; ti abbrutisce, ti rende inumano. Ed è questo, più di tutto, che plasma la nostra epoca: un’indifferenza cinica, stupida.

Abbiamo fatto indigestione di morti ammazzati dalle guerre, siamo saturi di quelle immagini; ma sì, perché no, anche un po’ stanchi. Parliamo della guerra in maniera distaccata, perché effettivamente lei da noi è lontana, ci siamo abituati all’idea di bombe intelligenti (innescate da coglioni), di “missioni di pace”, di sequestri di persona, di prigioni democratiche dove si applica la tortura democraticamente. Siamo diventati stupidi, e la cosa più assurda è che forse ce ne siamo anche accorti, ma non facciamo nulla per cercare di non sembrarlo; “finché la varca và lasciala andare, finché la varca và tu non remare” cantava mia nonna imitando Orietta Berti. Sembra quasi che cambiando il linguaggio - cioè cambiando nome alle cose -, risulti più facile far ingoiare il rospo. Infatti guerra è chiamata missione di pace, tortura semplicemente coercizione, e i mercenari operatori privati di sicurezza, la tirannide libertà. Ed è ignobile vedere quattro imbecilli, che sono poi quelli che ce li mandano lì i soldati, piangerli quando ritornano in bare avvolte dal tricolore. L’ultimo attentato contro il nostro contingente è costato la vita ad un ragazzo di 24 anni. Una vita interrotta bruscamente, progetti che se ne vanno, speranze e sacrifici inutili. Era sardo, aveva una ragazza che amava e avrebbe sposato, una madre ed un padre che l’aspettavano; prima che la guerra se lo prendesse. Forse dovremmo chiederlo al padre di quel soldato, se vorrebbe che la nostra missione in Irak continuasse, ma poi perché dire “nostra”, chi rischia la pelle lì non siamo noi: ma loro (i soldati).

Il sangue degli altri sgorga a fiumi, il nostro benessere è pagato da miliardi di uomini con l’indigenza, i nostri silenzi contribuiscono in maniera determinante a tutto questo. Ci siamo abituati a vivere privatamente il dolore, anzi: ci hanno abituato. Sembra stupido, ma se si riuscisse realmente a sentire ogni torto fatto a qualcuno come il proprio, se si riuscisse a rendere collettiva la consapevolezza della sofferenza, intesa non come eccezione, ma bensì, costante della condizione umana, molte cose non potrebbero accadere. Diceva Bertolt Brecht: “Siamo tutti attori di una tragedia che è collettiva, ma la recitiamo privatamente”. Forse il male peggiore che attanaglia il nostro mondo è proprio l’indifferenza. Quel “tanto a me non riguarda, non lo vedo quindi non mi tange”. Ma se un giorno inaspettatamente, qualcosa nella vita cambia, non hai più il controllo del tuo corpo, è la malattia. Dovrai imbatterti in medici ed ospedali, e cercherai conforto e sicurezza negli sguardi degli altri; sperando che questi te li diano. O se salendo su un treno o un aereo, un folle compierà un attentato, sicuramente tu non ci saresti voluto essere. E se perderai il lavoro, spererai sempre in qualcuno che possa aiutarti a trovarne un altro. Il dolore e la sofferenza sono intorno a noi, costantemente. Possiamo scegliere di non vederli, almeno fino a quando non ci toccano, oppure possiamo scegliere di esserne consapevoli, di non essere indifferenti.

C’è un’immagine del mio passato che a volte torna. Avrò avuto sette o otto anni, non ricordo bene; ma ricordo benissimo il volto allegro di mia zia, quel cesto di frutta che sopportava a fatica, mentre salivamo le scale di una villetta di campagna. Bussò il campanello, venne ad aprirci la porta una donna anziana, sulla ottantina, ci invitò ad entrare. Ero solo un bambino, ma credo che fu quella la prima volta che mi accorsi del dolore di qualcuno. Finita la visita, di ritorno a casa, domandai a mia zia cosa fosse successo a quella donna, perché era così triste, sola. E lei mi raccontò la storia di una vita spesa nel lavoro, nei campi; di un marito morto disgraziatamente in un cantiere, di un figlio troppo lontano, per lenire le sofferenze di una madre anziana. Mi parlò a lungo del dolore, quello degli altri; e ne parlava come se a me poi più di tanto non riguardasse, sicuro in un mondo fatto di giocattoli, affetto e domeniche in campagna. Anni dopo lei si ammalò; non aveva più i capelli, le braccia livide e bucate da chi sa quante flebo, gli occhi stanchi, gli stessi che scorsi in quella donna anziana anni prima. Mia zia era leggera, e dio solo sa quanto dolore ci volle per farla così leggera, finì due metri sotto terra. Provai immensa tristezza per la sua morte, volevo più bene a lei che a mia madre, incassai. È assurdo come tutto da un momento all’altro può cambiare, scivolarti dalle mani, travolgerti, annullarti. È in quelle situazioni che ci si rende conto che si è fragili, troppo deboli a cospetto della malattia, della morte. Ma la cosa peggiore che ti possa capitare, è quella di essere indifferente, non avere coscienza della sofferenza altrui; ti abbrutisce, ti rende inumano. Ed è questo, più di tutto, che plasma la nostra epoca: un’indifferenza cinica, stupida.

Abbiamo fatto indigestione di morti ammazzati dalle guerre, siamo saturi di quelle immagini; ma sì, perché no, anche un po’ stanchi. Parliamo della guerra in maniera distaccata, perché effettivamente lei da noi è lontana, ci siamo abituati all’idea di bombe intelligenti (innescate da coglioni), di “missioni di pace”, di sequestri di persona, di prigioni democratiche dove si applica la tortura democraticamente. Siamo diventati stupidi, e la cosa più assurda è che forse ce ne siamo anche accorti, ma non facciamo nulla per cercare di non sembrarlo; “finché la varca và lasciala andare, finché la varca và tu non remare” cantava mia nonna imitando Orietta Berti. Sembra quasi che cambiando il linguaggio - cioè cambiando nome alle cose -, risulti più facile far ingoiare il rospo. Infatti guerra è chiamata missione di pace, tortura semplicemente coercizione, e i mercenari operatori privati di sicurezza, la tirannide libertà. Ed è ignobile vedere quattro imbecilli, che sono poi quelli che ce li mandano lì i soldati, piangerli quando ritornano in bare avvolte dal tricolore. L’ultimo attentato contro il nostro contingente è costato la vita ad un ragazzo di 24 anni. Una vita interrotta bruscamente, progetti che se ne vanno, speranze e sacrifici inutili. Era sardo, aveva una ragazza che amava e avrebbe sposato, una madre ed un padre che l’aspettavano; prima che la guerra se lo prendesse. Forse dovremmo chiederlo al padre di quel soldato, se vorrebbe che la nostra missione in Irak continuasse, ma poi perché dire “nostra”, chi rischia la pelle lì non siamo noi: ma loro (i soldati).

Il sangue degli altri sgorga a fiumi, il nostro benessere è pagato da miliardi di uomini con l’indigenza, i nostri silenzi contribuiscono in maniera determinante a tutto questo. Ci siamo abituati a vivere privatamente il dolore, anzi: ci hanno abituato. Sembra stupido, ma se si riuscisse realmente a sentire ogni torto fatto a qualcuno come il proprio, se si riuscisse a rendere collettiva la consapevolezza della sofferenza, intesa non come eccezione, ma bensì, costante della condizione umana, molte cose non potrebbero accadere. Diceva Bertolt Brecht: “Siamo tutti attori di una tragedia che è collettiva, ma la recitiamo privatamente”. Forse il male peggiore che attanaglia il nostro mondo è proprio l’indifferenza. Quel “tanto a me non riguarda, non lo vedo quindi non mi tange”. Ma se un giorno inaspettatamente, qualcosa nella vita cambia, non hai più il controllo del tuo corpo, è la malattia. Dovrai imbatterti in medici ed ospedali, e cercherai conforto e sicurezza negli sguardi degli altri; sperando che questi te li diano. O se salendo su un treno o un aereo, un folle compierà un attentato, sicuramente tu non ci saresti voluto essere. E se perderai il lavoro, spererai sempre in qualcuno che possa aiutarti a trovarne un altro. Il dolore e la sofferenza sono intorno a noi, costantemente. Possiamo scegliere di non vederli, almeno fino a quando non ci toccano, oppure possiamo scegliere di esserne consapevoli, di non essere indifferenti.