Nell’indietreggiare… la scuola si rinnova
di Emanuele Di Mascolo
Ricordo il mio primo giorno di scuola superiore in modo vago. Quando si è nuovi ci si sente a disagio, oserei dire quasi inopportuni, rispetto al contesto. Ho trascorso anni spensierati tra i banchi di scuola (sei per l’esattezza), ho conosciuto persone a cui mi sento legato in modo fraterno. A volte riaffiorano nella mia mente pensieri, profumi,volti amici: Giannino, Mauro, Robertino, Simona ed Ersilia. Ci sono giorni che non possono essere dimenticati, momenti di vita trascorsi insieme, irripetibili. Un giorno, sentii dire dal preside in una delle sue tante ammende, che “la scuola in fondo non è altro che uno spaccato, un modello in piccolo della società in cui viviamo”. Io non mi spingo così lontano in simili comparazioni, ma quanto meno credo che qualche paragone possa essere fatto. Intendo la scuola come un filtro, o meglio uno specchio riflesso in cui si ripercuotono determinate problematiche esterne. Benché le relazioni materiali tra gli uomini siano ben altra cosa, nella scuola moderna è dato scorgere il carattere ambiguo e contraddittorio che questa struttura sempre più rappresenta. Sono ormai lontani gli anni delle grandi rivendicazioni per un sapere autentico, in grado di sviluppare quella capacità critica nei soggetti che apprendono. Oggi la scuola italiana si configura sempre più come semplice appendice del sistema d’impresa, modellandosi secondo le sue esigenze di congiuntura. Qualcuno si è spinto persino oltre, parlando di scuola-azienda. Dopotutto, perché stranirsi? Noi nel bel paese ci abbiamo già un partito azienda, un ex presidente del consiglio che divenne presidente a suon di voti per difendere gli interessi della sua azienda, e poi poco importa se quelli che ci rimettono sono sempre gli stessi; tanto oggi, ormai ognuno è “imprenditore di se stesso”. Ci hanno riempito le orecchie di parole come competitività, flessibilità, specializzazione dei saperi, efficienza. Ma siamo sicuri che queste categorie e criteri siano applicabili nel campo del sapere senza che il sapere stesso ne venga compromesso? Fino a che punto è desiderabile la cosiddetta razionalizzazione dei programmi scolastici, se il risultato finale è quello di ritrovarsi dei perfetti semi analfabeti? Quando ero al Nautico, qualche riformatore illuminato pensò bene di introdurre l’uso dei moduli nel procedimento didattico. Ci dissero che con questo sistema si sarebbero colpiti i furbi, quelli che non studiano, parassitando sulle spalle dei compagni più studiosi. Vennero sospese le interrogazioni orali, il programma fu suddiviso in moduli, ed alla fine di ogni modulo doveva essere sostenuta una prova scritta. Credo che il risultato migliore di questo metodo sia stato quello di riuscire a far disapprendere quel poco di italiano parlato che qualcuno di noi conosceva. Per quanto riguarda i furbi, invece di essere stati colpiti, in realtà sono stati favoriti, non studiavano e i compiti in classe si copiavano. Poi venne l’università. Con le sue lauree brevi, i suoi ritmi forsennati e i suoi scarni programmi. Ricordo ancora lo stupore che provai quando scoprii che quello che stava preparando un mio amico non era solo un famigerato”modulo” di storia contemporanea, ma bensì l’esame di storia contemporanea. Un libro all’incirca di 150 pagine, che trattava del fascismo e della seconda guerra mondiale. Come era possibile, che un esame così importante si riducesse alla trattazione di soli due argomenti, seppur di vitale importanza per la comprensione del secolo ventesimo? Forse la flessibilità ci entrava qualcosa, ora cominciavo a capire anche io cosa poi questa significasse. Nel senso prettamente contrattuale del termine significava che potevano mandarti a casa quando volevano, delle tue ricerche l’Italia non sa che farsene, sei semplicemente uno che viene strizzato all’uopo, l’uomo buono per tutte le stagioni.
L’Italia è il paese in cui gli stipendi dei professori sono tra i più bassi di tutta Europa. E come se non bastasse, è anche il paese in cui il finanziamento pubblico alla ricerca è praticamente irrisorio. I ricercatori sono una categoria che può vantare un salario da fame, e poi debbo sentirmi dire dal professore di sociologia dello sviluppo, che la classe lavoratrice non esiste più, o che non c’è più sfruttamento; voi come gli definireste 800 euro mensili per più di dieci ore di lavoro al giorno? Così succede di assistere a una vera e propria fuga di cervelli. E il mondo è pieno di lidi pronti ad accoglierli. Paesi come gli stati uniti, la Finlandia, la Norvegia, per non parlare di India e Cina, spendono per la ricerca qualcosa come il sette per cento del prodotto nazionale lordo. L’Italia è indietro,tremendamente indietro. E le riforme di Berlinguer e Moratti non fanno altro che esasperare questa situazione. La flessibilità che lor signori stanno a poco a poco imponendo al mondo dell’istruzione, uccide il pensiero, uccidendo il pensiero si uccide la scienza. Vorrei chiudere questo brevissimo scritto ricordando una citazione di Bertolt Brecht raccolta nel suo diario di poesie: “Ogni anno in settembre, quando comincia l’anno scolastico le donne nelle cartolerie dei sobborghi comprano i libri di scuola e i quaderni per i loro bambini. Disperate cavano i loro ultimi soldi dai borsellini logori, lamentando che il sapere sia così caro. E dire che non hanno la minima idea di quanto sia cattivo il sapere destinato ai loro bambini".
Ricordo il mio primo giorno di scuola superiore in modo vago. Quando si è nuovi ci si sente a disagio, oserei dire quasi inopportuni, rispetto al contesto. Ho trascorso anni spensierati tra i banchi di scuola (sei per l’esattezza), ho conosciuto persone a cui mi sento legato in modo fraterno. A volte riaffiorano nella mia mente pensieri, profumi,volti amici: Giannino, Mauro, Robertino, Simona ed Ersilia. Ci sono giorni che non possono essere dimenticati, momenti di vita trascorsi insieme, irripetibili. Un giorno, sentii dire dal preside in una delle sue tante ammende, che “la scuola in fondo non è altro che uno spaccato, un modello in piccolo della società in cui viviamo”. Io non mi spingo così lontano in simili comparazioni, ma quanto meno credo che qualche paragone possa essere fatto. Intendo la scuola come un filtro, o meglio uno specchio riflesso in cui si ripercuotono determinate problematiche esterne. Benché le relazioni materiali tra gli uomini siano ben altra cosa, nella scuola moderna è dato scorgere il carattere ambiguo e contraddittorio che questa struttura sempre più rappresenta. Sono ormai lontani gli anni delle grandi rivendicazioni per un sapere autentico, in grado di sviluppare quella capacità critica nei soggetti che apprendono. Oggi la scuola italiana si configura sempre più come semplice appendice del sistema d’impresa, modellandosi secondo le sue esigenze di congiuntura. Qualcuno si è spinto persino oltre, parlando di scuola-azienda. Dopotutto, perché stranirsi? Noi nel bel paese ci abbiamo già un partito azienda, un ex presidente del consiglio che divenne presidente a suon di voti per difendere gli interessi della sua azienda, e poi poco importa se quelli che ci rimettono sono sempre gli stessi; tanto oggi, ormai ognuno è “imprenditore di se stesso”. Ci hanno riempito le orecchie di parole come competitività, flessibilità, specializzazione dei saperi, efficienza. Ma siamo sicuri che queste categorie e criteri siano applicabili nel campo del sapere senza che il sapere stesso ne venga compromesso? Fino a che punto è desiderabile la cosiddetta razionalizzazione dei programmi scolastici, se il risultato finale è quello di ritrovarsi dei perfetti semi analfabeti? Quando ero al Nautico, qualche riformatore illuminato pensò bene di introdurre l’uso dei moduli nel procedimento didattico. Ci dissero che con questo sistema si sarebbero colpiti i furbi, quelli che non studiano, parassitando sulle spalle dei compagni più studiosi. Vennero sospese le interrogazioni orali, il programma fu suddiviso in moduli, ed alla fine di ogni modulo doveva essere sostenuta una prova scritta. Credo che il risultato migliore di questo metodo sia stato quello di riuscire a far disapprendere quel poco di italiano parlato che qualcuno di noi conosceva. Per quanto riguarda i furbi, invece di essere stati colpiti, in realtà sono stati favoriti, non studiavano e i compiti in classe si copiavano. Poi venne l’università. Con le sue lauree brevi, i suoi ritmi forsennati e i suoi scarni programmi. Ricordo ancora lo stupore che provai quando scoprii che quello che stava preparando un mio amico non era solo un famigerato”modulo” di storia contemporanea, ma bensì l’esame di storia contemporanea. Un libro all’incirca di 150 pagine, che trattava del fascismo e della seconda guerra mondiale. Come era possibile, che un esame così importante si riducesse alla trattazione di soli due argomenti, seppur di vitale importanza per la comprensione del secolo ventesimo? Forse la flessibilità ci entrava qualcosa, ora cominciavo a capire anche io cosa poi questa significasse. Nel senso prettamente contrattuale del termine significava che potevano mandarti a casa quando volevano, delle tue ricerche l’Italia non sa che farsene, sei semplicemente uno che viene strizzato all’uopo, l’uomo buono per tutte le stagioni.
L’Italia è il paese in cui gli stipendi dei professori sono tra i più bassi di tutta Europa. E come se non bastasse, è anche il paese in cui il finanziamento pubblico alla ricerca è praticamente irrisorio. I ricercatori sono una categoria che può vantare un salario da fame, e poi debbo sentirmi dire dal professore di sociologia dello sviluppo, che la classe lavoratrice non esiste più, o che non c’è più sfruttamento; voi come gli definireste 800 euro mensili per più di dieci ore di lavoro al giorno? Così succede di assistere a una vera e propria fuga di cervelli. E il mondo è pieno di lidi pronti ad accoglierli. Paesi come gli stati uniti, la Finlandia, la Norvegia, per non parlare di India e Cina, spendono per la ricerca qualcosa come il sette per cento del prodotto nazionale lordo. L’Italia è indietro,tremendamente indietro. E le riforme di Berlinguer e Moratti non fanno altro che esasperare questa situazione. La flessibilità che lor signori stanno a poco a poco imponendo al mondo dell’istruzione, uccide il pensiero, uccidendo il pensiero si uccide la scienza. Vorrei chiudere questo brevissimo scritto ricordando una citazione di Bertolt Brecht raccolta nel suo diario di poesie: “Ogni anno in settembre, quando comincia l’anno scolastico le donne nelle cartolerie dei sobborghi comprano i libri di scuola e i quaderni per i loro bambini. Disperate cavano i loro ultimi soldi dai borsellini logori, lamentando che il sapere sia così caro. E dire che non hanno la minima idea di quanto sia cattivo il sapere destinato ai loro bambini".