Fierezza sotto i tacchi
di Paolo Coiro
Un ragazzo cresce nella propria città, si fa cullare da lei, vive le sue strade, le sue contraddizioni, i suoi inverni freddi, le sue regole, le sue estati sudate, le sue incapacità. La vive, la ama, la odia. Come si fa a una persona a cui si vuol bene.
Poi, un bel giorno scopri tutto. Inizi a guardarti meglio in giro, a domandare e domandarti. Comprendi alcune cose e acciuffi delle altre; rimani impantanato in un circolo vizioso di idee morte e risorte morte. Al primo incontro fai fatica a crederci. Come quando esci – dopo tanto penare – con la ragazza che desideravi da sempre. Passi con lei i primi diciotto minuti, dopo i quali inizi a domandarti: “Ma cosa ci trovavo di così eccezionale in questa ragazza?”
Quando la voce non è più solo una, quando le bombe non si accendono più a Villa San Martino ma a via Indipendenza, quando chiedi a un politico se Gaeta è pulita o sporca e lui ti risponde prendendoti in giro per aver insinuato qualcosa di assurdo: “Ma quando mai! Gaeta è un’isola felice!”. Ora inizi a notare più cose, a far attenzione ai particolari. Guardi le persone negli occhi provando a entrarci dentro. Alcune facce ti appaiono deformate, ingrassate, quasi grottesche. Torni a casa la sera, mentre indossi il pigiamino – dimessi i panni da fiero cittadino – ripensi a quella stretta di mano tra quel politico e quell’altro capo del popolo – o di una sua piccola famiglia -. A quella voce da verificare, a quell’imbroglio tangibile. Così ti sale un groppo alla gola fatto di nausea, di schifo, di rabbia. La prima immagine è Gaeta sotto le vesti di un’anziana signora che muore. Ti rattristi. Ti rattristi, poi la rabbia prende il sopravvento, ma cerchi di rattenerla. Poi ragioni da onesto cittadino, pensi che bisogna lottare per la verità, per quell’orgoglio che non deve crepare. A un tratto sei a un passo da una vera e propria scelta di vita: donare la tua persona, tutta per questa causa (vedi Roberto Saviano). Così, hai i fondamenti per fantasticare te in un futuro vicino, mentre vai in giro con la scorta. Col tempo, tutto quest’orgoglio va a scemare. Sogni di meno. T’innamori di una bella ragazza, pensi di meno alla merda che vedi; questa sembra tramutarsi in un tappeto dove crescono margheritine bianche.
Un giorno un tuo vecchio amico con il quale avevi programmato e discusso circa quella battaglia sociale ti viene a bussare alla porta. Ti trova sbracato sul divano, mentre sorseggi una mezza birra e giochi alla play station e canti: “Non dirmi mai che siamo stati a letto per un giorno intero!”. Lui ti sussurra all’orecchio una parolina: “Malavita…”. Ma quasi non lo senti; stai esultando come uno scalmanato perché hai fatto gol in rovesciata con Ronaldinho.
Un ragazzo cresce nella propria città, si fa cullare da lei, vive le sue strade, le sue contraddizioni, i suoi inverni freddi, le sue regole, le sue estati sudate, le sue incapacità. La vive, la ama, la odia. Come si fa a una persona a cui si vuol bene.
Poi, un bel giorno scopri tutto. Inizi a guardarti meglio in giro, a domandare e domandarti. Comprendi alcune cose e acciuffi delle altre; rimani impantanato in un circolo vizioso di idee morte e risorte morte. Al primo incontro fai fatica a crederci. Come quando esci – dopo tanto penare – con la ragazza che desideravi da sempre. Passi con lei i primi diciotto minuti, dopo i quali inizi a domandarti: “Ma cosa ci trovavo di così eccezionale in questa ragazza?”
Quando la voce non è più solo una, quando le bombe non si accendono più a Villa San Martino ma a via Indipendenza, quando chiedi a un politico se Gaeta è pulita o sporca e lui ti risponde prendendoti in giro per aver insinuato qualcosa di assurdo: “Ma quando mai! Gaeta è un’isola felice!”. Ora inizi a notare più cose, a far attenzione ai particolari. Guardi le persone negli occhi provando a entrarci dentro. Alcune facce ti appaiono deformate, ingrassate, quasi grottesche. Torni a casa la sera, mentre indossi il pigiamino – dimessi i panni da fiero cittadino – ripensi a quella stretta di mano tra quel politico e quell’altro capo del popolo – o di una sua piccola famiglia -. A quella voce da verificare, a quell’imbroglio tangibile. Così ti sale un groppo alla gola fatto di nausea, di schifo, di rabbia. La prima immagine è Gaeta sotto le vesti di un’anziana signora che muore. Ti rattristi. Ti rattristi, poi la rabbia prende il sopravvento, ma cerchi di rattenerla. Poi ragioni da onesto cittadino, pensi che bisogna lottare per la verità, per quell’orgoglio che non deve crepare. A un tratto sei a un passo da una vera e propria scelta di vita: donare la tua persona, tutta per questa causa (vedi Roberto Saviano). Così, hai i fondamenti per fantasticare te in un futuro vicino, mentre vai in giro con la scorta. Col tempo, tutto quest’orgoglio va a scemare. Sogni di meno. T’innamori di una bella ragazza, pensi di meno alla merda che vedi; questa sembra tramutarsi in un tappeto dove crescono margheritine bianche.
Un giorno un tuo vecchio amico con il quale avevi programmato e discusso circa quella battaglia sociale ti viene a bussare alla porta. Ti trova sbracato sul divano, mentre sorseggi una mezza birra e giochi alla play station e canti: “Non dirmi mai che siamo stati a letto per un giorno intero!”. Lui ti sussurra all’orecchio una parolina: “Malavita…”. Ma quasi non lo senti; stai esultando come uno scalmanato perché hai fatto gol in rovesciata con Ronaldinho.